SELECT YOUR LANGUAGE
Nella prima parte di questa rubrica “lo scopo della guerra secondo Orwell” abbiamo proposto il CAPITOLO III di “TEORIA E PRASSI DEL COLLETTIVISMO OLIGARCHICO”, il saggio presente nell’opera 1984 che il protagonista Winston Smith si trova a leggere in un momento di riposo, verso pagina 150 del libro.
Oggi proseguiamo continuando il capitolo III da dove l’avevamo interrotto.
George Orwell
Capitolo III: La Guerra è pace
PARTE II
Tutti i territori contesi contengono minerali preziosi, alcuni anche prodotti vegetali importanti, come la gomma, che sotto climi più rigidi è necessario fabbricare sinteticamente mediante procedimenti più o meno costosi. Soprattutto, però, essi contengono una riserva inesauribile di manodopera a basso costo. Chiunque controlli l’Africa equatoriale o i paesi del Medio Oriente, o l’India meridionale, o l’arcipelago indonesiano, può anche disporre dei corpi di decine o centinaia di milioni di lavoratori sottopagati e rotti alla fatica. Gli abitanti di queste regioni, ridotti più o meno esplicitamente alla condizione di schiavi, passano di continuo da un conquistatore all’altro e sono utilizzati, come avviene per il carbone o il petrolio, nella corsa agli armamenti, all’accaparramento di nuove terre, al controllo di una maggiore quantità di manodopera, quindi in un’altra corsa agli armamenti, all’accaparramento di nuove terre, al controllo di una maggiore quantità di manodopera e via discorrendo, all’infinito. Va osservato che i combattimenti si svolgono quasi sempre attorno ai confini delle aree contese. Le frontiere dell’Eurasia si spostano avanti e indietro fra il bacino del Congo e la costa settentrionale del Mediterraneo; le isole dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico sono continuamente perdute e riconquistate dall’Oceania o dall’Estasia; in Mongolia la linea divisoria fra l’Eurasia e l’Estasia non è mai fissa; attorno al Polo, tutti e tre i superstati rivendicano il possesso di enormi territori, per la gran parte deserti e inesplorati. L’equilibrio fra i superstati resta più o meno stabile e il nucleo territoriale di ciascuno di essi rimane inviolato. Va detto inoltre che il contributo, in lavoro, delle popolazioni sfruttate attorno all’equatore non è in ultima analisi indispensabile per l’economia mondiale. Queste popolazioni non aggiungono nulla alla ricchezza mondiale, dal momento che tutto ciò che producono è utilizzato per fini bel- lici e che lo scopo di ogni conflitto è sempre quello di poter partire da posizioni di vantaggio nella guerra successiva. Ciò che viene prodotto da queste popolazioni ha l’effetto di accelerare il ritmo di uno stato di guerra ininterrotto, ma se anche non esistessero, le strutture sociali del mondo intero e i processi attraverso cui tali strutture si conservano resterebbero sostanzialmente immutati.
Anche in 1984, il continente africano ricopre il ruolo di zona intermedia, perennemente contesa tra guerre, ribellioni e schiavitù opprimente; infatti le popolazioni (come nella realtà) vengono utilizzate esclusivamente per la manodopera, rendendole schiave al servizio egemonico dei superstati
Lo scopo fondamentale della guerra moderna (che, conformemente ai principi del bipensiero, è allo stesso tempo affermato e negato dalle teste pensanti del Partito Interno) è quello di consumare ciò che producono le macchine senza che ne risulti innalzato il tenore di vita. A partire dalla fine del XIX secolo è stato latente, nella società industriale, il problema di come utilizzare i beni di consumo in eccesso. Al giorno d’oggi, quando sono pochi quelli che hanno cibo a sufficienza, un problema del genere, ovviamente, non è urgente e verosimilmente sarebbe stato così anche se non si fosse ricorso a nessun processo di distruzione programmato a tavolino. Paragonato a quello che esisteva prima del 1914, e ancor più se lo si confronta col tipo di futuro che gli uomini di quel tempo speranzosamente si figuravano, il mondo contemporaneo è una landa desolata, un mondo affamato e in rovina. Agli inizi del XX secolo, la visione di una società futura ricca, opulenta, ordinata ed efficiente — un mondo asettico e luccicante, fatto di vetro, acciaio e cemento bianchissimo — era parte integrante della coscienza di qualsiasi persona alfabetizzata. La scienza e la tecnica si sviluppavano a una velocità prodigiosa e sembrava ovvio presupporre che un simile processo non si sarebbe arrestato. Tutto ciò, invece, non si verificò, in parte a causa dell’impoverimento indotto da una lunga serie di guerre e rivoluzioni, in parte perché il progresso scientifico e tecnologico dipendeva da una visione del mondo empirica, che non poteva sopravvivere in una società strettamente irreggimentata. Oggi il mondo è complessivamente più primitivo di quanto non fosse cinquant’anni fa. Alcune aree depresse hanno migliorato i loro standard e diversi strumenti tecnici, sempre connessi in qualche modo alla guerra e allo spionaggio poliziesco, hanno conosciuto un certo sviluppo, ma la capacità di sperimentare e di inventare si è praticamente arrestata, mentre le devastazioni prodotte dalla guerra atomica degli anni Cinquanta non sono mai state risanate del tutto. Ciononostante, i pericoli inerenti le macchine non sono affatto scomparsi. Quando le macchine fecero la loro comparsa, ogni essere pensante maturò la convinzione che fosse scomparsa la necessità di qualsiasi lavoro pesante e che contestualmente fosse svanita ogni necessità di preservare l’ineguaglianza fra gli uomini. Se l’impiego delle macchine fosse stato direttamente indirizzato a tal fine, nell’arco di alcune generazioni mali come la fame, il superlavoro, la sporcizia, l’analfabetismo e le malattie sarebbero stati eliminati. Ed effettivamente, pur non venendo usate a tal fine, ma in conseguenza di una specie di processo automatico (producendo ricchezza, cioè, che talvolta risultava impossibile non distribuire), per un periodo di circa cinquant’anni compreso fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, le macchine innalzarono moltissimo il generale tenore di vita.
Non serve aggiungere nient'altro. Il paragone con il presente è incredibile. Parlando con mio nonno oggi, classe 1933, mi raccontava di come nel dopoguerra chiunque possedesse più di un ettaro di terreno era considerato "il padrone" (u padron..), e tutti gli altri dei semplici schiavi. Chiaro, in un'epoca dove l'unica forza lavoro dopo una devastazione provocata dal secondo conflitto mondiale era la manodopera umana coadiuvata da quella animale; il tutto era ben accompagnato da un totale assetto mafioso, dove chi riusciva a "comprare" il padrone con un caciocavallo o qualche altra sorta di pizzo riusciva ad ottenere un lavoro che, sia chiaro, era comunque da schiavi. Oggi nel cosiddetto "benessere" la situazione è anche peggiore, dove le macchine hanno quasi del tutto soppiantato la parte umana. Quindi tocca pensare seriamente alla questione: se 70 anni fa l'uomo serviva come forza lavoro, volente o nolente, oggi che le macchine possono fare lo stesso lavoro meglio, senza ammalarsi, senza stancarsi, senza ferie e contributi, secondo voi come finirà? Ai posteri l'ardua sentenza.

Seguirà parte 3. Se vi è piaciuto l’articolo, condividetelo e commentate le vostre considerazioni.
Your article gave me a lot of inspiration, I hope you can explain your point of view in more detail, because I have some doubts, thank you.
Your article gave me a lot of inspiration, I hope you can explain your point of view in more detail, because I have some doubts, thank you.
I am currently writing a paper and a bug appeared in the paper. I found what I wanted from your article. Thank you very much. Your article gave me a lot of inspiration. But hope you can explain your point in more detail because I have some questions, thank you. 20bet